Uno degli effetti collaterali del vivere senza parlare la propria lingua per giornate intere è che il proprio vocabolario si immiserisce. Il che non è il massimo per uno che di professione deve mettere assieme delle parole nel modo più chiaro, esaustivo e accattivante, ma questo è il prezzo da pagare per viaggiare a lungo e non essere, grazie a dio, di madrelingua inglese.
Così per definire Kota Kinabalu, capitale del Sabah, uno dei due stati che con Kuching forma il Borneo Malese, non riesco a trovare altro aggettivo che l’inglese uninspiring, che d’altronde non possiede un termine equivalente in italiano e viene tradotto con l’espressione molto meno efficace “che non ispira”.

A dispetto della sua posizione teoricamente ideale, adagiata sulla costa di fronte a un parco marino formato da cinque isole raggiungibili in venti minuti di lancia, alle sue spalle un parco di grande biodiversità che fa da anticamera al Monte Kinabalu, che con oltre quattromila metri è la vetta più alta di tutto il sud est asiatico, nonostante un clima che vede le temperature uscire molto raramente dalla soglia ventitré-trentuno gradi, nonostante il mix razziale cinesi, filippini (l’isola di Mindanao dista solo un centinaio di chilometri a nord ed è visibile, dicono, nei brevi momenti in cui il cielo si schiarisce a sufficienza tra il flusso costante di nuvole), malay, gitanti, nonostante tutto ciò Kota Kinabalu, come il resto della Malesia d’altronde, è un posto noioso per il turista, soprattutto per chi viaggia solo, e probabilmente anche per chi ci vive.

La sensazione diventa certezza dopo aver speso ore e ore, mattine, pomeriggi e sere, girando per la città in cerca di volti da incontrare, o quantomeno vite da osservare, tra i banchi del mercato filippino, tra i locali serali sul lungomare, nella deserta spiaggia cittadina, tra i ristoranti locali e le catene di fast food americane, perfino tra i bassifondi che sono definiti tali perché l’unica forma di trasgressione è lo spaccio in strada di dvd porno; droga e prostituzione, se esistono, richiedono lunghe ricerche e connessioni che non si improvvisano in una settimana.

Ma ciò che caratterizza più di ogni altra cosa Kota Kinabalu, il luogo dove immancabilmente trovare rifugio dall’umidità insopportabile, sono i centri commerciali, mall che si susseguono senza soluzione di continuità, uno dopo l’altro, uno uguale all’altro, e che sembrano rappresentare l’unico luogo di confluenza, non credo si possa arrivare a definirla socialità, di chi abita in città e di chi arriva dalla periferia. Wisma (la parola malese che indica edifico) Merdeka, Wisma X, Wisma Y: ovunque le stesse merci in vendita, lo stesso viavai di gente, tutto incredibilmente piatto, anonimo, monotono, ripetitivo.

Sembra un posto qualunque della middle america, ma questo è il Borneo, la terra di una natura mitica e selvaggia punteggiata di parchi naturali e marini con una flora e una fauna paragonabili a pochissimi posti al mondo. La triste verità però è che l’accesso a questi parchi è regolato in modo da favorire inutili tour, perfettamente organizzati per spillare il massimo dei soldi e darti il minimo dell’autenticità. Ci vogliono tempo e preparazione per sfruttare davvero le grandi opportunità che offrono questi parchi. Solo così, per esempio, puoi passare alcuni giorni in casa di nativi e capire cosa vuol dire veramente vivere qui.

Arrivato in questo posto con l’idea e la speranza di passarci almeno un paio di settimane, non avrei probabilmente finito la prima se non ci fosse stata la pazza Faiza a mettere un po’ di zizzania nelle mie giornate.

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