Ripartiamo verso le tre del pomeriggio e decido di affrontare i 90km che mi separano alla frontiera con il Myanmar e all’agognato timbro sul passaporto in scioltezza, cercando di tenere la stessa andatura di Francesco. Un po’ perché c’è tutto il tempo, un po’ perché sono appesantito dall’ottima e abbondante mangiata, e soprattutto, adesso che il traguardo è vicino e posso rilassarmi un po’, perché avverto i sintomi del crollo di adrenalina incipiente. Il mio fisico mi sta presentando il conto dei due giorni in cui ho cagato tutto quello che avevo in corpo e ai quali ho fatto seguire anziché un sano riposo totale, uno sforzo massacrante.

Siamo ancora in centro città quando uno dei tanti Suv, che sono il mezzo a quattro ruote più comune su queste strade, esce dal parcheggio e mi entra in corsia senza freccia e senza guardare, incurante di chi c’è dietro, con la prepotenza tipica di chi guida questi animali e sa che sono gli altri a dover preoccuparsi di lui, perché tanto quel mostro gli urti non li sente nemmeno. Sto andando piano, freno, ma la moto mi sbanda paurosamente come se avessi inchiodato al massimo della velocità e derapa buttandomi quasi per terra. Sarà perché il motore è freddo ipotizza Francesco: o forse mi sono consumato le ruote nelle tirate fatte temo io, o sono davvero troppo stanco e non ho più i riflessi.

Abituato a guidare sempre in corsia di sorpasso il mio nervosismo aumenta col constatare che anche uscendo da Chiang Rai la strada rimane trafficatissima e molto pericolosa, perché pur essendo ufficialmente una Highway è disseminata di punti di entrata e uscita non regolamentati verso la teoria infinita di case che costeggiano lo stradone principale.

Sto già pensando che forse è il caso di fare l’ultima tirata e mettersi di nuovo a manetta, che per le mie abitudini di guida e la situazione contingente rappresentano l’opzione più sicura, quando avviene il patatrac.

La berlina che mi sta davanti inchioda all’improvviso senza ostacoli in strada e io con un Pick Up che sta arrivando di gran carriera nella corsia a fianco, sono costretto a fare altrettanto. Di nuovo la moto si comporta come un puledro imbizzarrito alla frenata, ma stavolta non posso evitare la caduta. D’istinto mi butto di lato e il mio casco, se cosi vogliamo chiamare quella specie di cappello di plastica bucherellato che ti danno i noleggiatori, si sfila e finisce sotto il cofano della macchina. Il mio scivolamento si arresta un metro prima.

Dalla macchina esce fuori una coppia di minute e scheletriche ragazzine vestite alla moda, apparentemente terrorizzate, che miagolano ripetutamente sorry, sorry, e vedendo il sangue sgorgare si offrono di andare a comprare di corsa iodio e cotone in farmacia, mentre il padrone del chioschetto al margine della strada si prende cura di spostare la moto dal traffico, e io vado a sciacquarmi con il tubo di gomma del suo locale.

Prestati i primi soccorsi e appurato che non ho nulla di rotto, questo prototipo di inutilità orientale cerca di abbozzare un sorriso e dirmi allegramente che si è fermata perché nella vietta laterale che aveva appena superato c’è il garage di casa, come se questo giustificasse la sua manovra.

In momenti così la percezione del tempo è alterata come neanche sotto l’effetto della ganja più pura, e in presa diretta mi sembrano infiniti i pochi attimi in cui mi vedo prendere le braccine di questa deficiente, spezzarle come un grissino, prenderle la testa in mano, staccargliela dal collo con un movimento laterale secco e farla rimbalzare un po’ di volte sul cofano di quella cazzo di macchina che è grande dieci volte lei e mai avrebbe mettervisi al volante e soprattutto farlo con questa leggerezza.

Devi mettere la freccia e guardare negli specchietti – le urlo – Adesso me la sono cavata, ma un metro in più e probabilmente ero morto. Puoi uccidere persone se guidi così, lo capisci?

Mi viene in mente che probabilmente per lei questo non sia per lei il miglior argomento di persuasione, imbevuta di educazione buddista per cui la mia morte sarebbe solo una tappa qualunque di un ciclo innumerevole di rinascite. Ma tra i mille motivi per cui potrei serenamente morire adesso non ho incluso l’opzione ammazzato da una teenager thailandese che non ha la patente e inchioda in autostrada.

Francesco mi suggerisce di essere meno duro perché gli hanno insegnato che gli orientali non sono abituati a dimostrazioni così plateali del sentimento di rabbia e se spavento le ragazze troppo potrebbero reagire male e non collaborare. Dopo avergli ribattuto che se triturarla a pezzettini come il cuore mi suggerisce non risolve pragmaticamente il problema, ma farle provare un po’ di cattolico senso di colpa mi sembra il minimo morale che devo fare, cerco di assumere un tono paternalistico e vado ad affrontare l’aspetto pratico.

Devi essere responsabile, guidare la macchina è pericoloso, lo capisci?
Silenzio con l’espressione del poppante che finge di temere e accettare i rimproveri della madre, ma in realtà non gliene può fregar di meno.
Ce li hai i fogli della constatazione amichevole?
– Eh? Non capisco
– Ho bisogno della tua patente per dare i dati alla mia assicurazione
– No patente.

La tipa adesso finge di non parlare e nemmeno capire e l’inglese e confabula in thai con l’amica. Mi rivolgo anch’io all’amica, che mi conferma che l’idiota al suo fianco non ha la patente (oltre al cervello presumibilmente) e quella che guida non è la sua macchina.
Non so da dove mi arrivi la lucidità per realizzare prontamente che ho un visto di permanenza che probabilmente è scaduto da un giorno e anche se non lo fosse dalla Polizia non ci sarebbero testimoni che tengano: sarebbe la parola di un fottuto Farang che si improvvisa motociclista in Thailandia contro una ragazza perbene, che per guidare una macchina così è probabilmente anche di famiglia ricca e potente e ovviamente ha tutti i documenti in regola.

Dopo il bastone è il momento della carota e cerco di mostrami magnanimo:
Io non ti voglio creare problemi con la polizia. Non ti denuncio e non dirò a nessuno che tu non hai i documenti. Adesso devo andare, domani porto la moto dal meccanico e se l’assicurazione mi dice che ci sono dei danni da pagare, qualunque sia la cifra, paghi tu, ok?

Le due tipe annuiscono e mi danno un numero di cellulare per contattarle, cellulare che casualmente in quel momento ha la batteria scarica. Non avrò mai modo di verificare se il numero era vero, e se avrebbero pagato, perché miracolosamente la moto non ha subito danni e riparte senza problemi: Io, pur ridotto allo stremo psicofisico, non ho niente di rotto, per cui liquido l’esserino insulso che ha tentato di ammazzarmi e mi rimetto in sella. Se è vero, come mi hanno detto, che la frontiera chiude alle cinque del pomeriggio, ho di nuovo i minuti contati.

Vai alla 5a parte