In realtà ho definitivamente chiuso con Faiza solo la sera dopo, quando le ho chiesto se era già arrivata a Semporna e lei mi ha risposto che non ci era andata e si sarebbe fatta sentire appena si fosse liberata dalla misteriosa zia. Così dopo un giorno di noia sull‘isola di Manukan, dove l’acqua era infestata di altri nemici invisibili, quel plancton che ti pizzica mentre sei in acqua senza lasciarti segni una volta che ne esci, mi sono organizzato il week end al tanto pubblicizzato Kota Kinabalu National Park.

Ci arrivo che sono quasi le due di sabato con taxi collettivo. Sono l’unico spettatore ad assistere alla proiezione dell’interessante audiovisivo di venticinque minuti che illustra le bellezze del parco. Quindi, prima della visita guidata al vicino giardino botanico ho tempo mezzora, che impiego percorrendo l’adiacente sentiero di rain forest.

Non conoscendo l’esatta traduzione in italiano (letteralmente sarebbe foresta della pioggia, anche se da qualche parte ho letto il più moderato foresta umida), credo sia più indicato usare una perifrasi. Dicesi rain forest l’ambiente appropriato per gli amanti degli insetti, i feticisti del ronzio nell’orecchio, coloro i quali godono nel sentire invisibili volatili cibarsi del sudore che ti sgorga copioso dalla testa e rimane impregnato nei capelli, mentre tutt’attorno, per quel poco che le lacrime che ti riempiono gli occhi e la poca luce che filtra ti permettono di vedere, è un monocromatico florilegio di fitte piante intrecciate, il terreno sotto i tuoi sandali è dalle forti pendenze e il fango ti si appiccica ai sandali e ti chiedi per che cazzo stai ansimando da solo in questo habitat che favorisce la proliferazione di milioni di tipi di vita diversi, ma certamente non quella umana.

Arrivo al giardino botanico che la visita organizzata è cominciata da dieci minuti, ma quando la raggiungo non ci metto molto a capire che stare con un gruppo di trentasette liceali finlandesi dall’altezza media superiore al metro e ottanta e una guida timida e dal pessimo inglese è solo una perdita di tempo, per cui mi stacco, provo ad agganciarmi a una coppia di vecchi inglesi con guida privata che mostrano di non gradire l’intruso, scatto qualche foto a tutto quello si distingue un minimo nel poutpurrì di verdi cespugli e me ne esco deluso, cercando di ricordare dove avevo letto o sentito che questo fosse uno dei posti imperdibili del parco.

La serie di furti istituzionalizzata all’interno del parco prevede anche che qualunque trasporto dal suo interno a Ranau, il paese distante venti chilometri che è a metà strada verso le terme e dove ho deciso di passare la notte, costi cinquanta ringgit, sia che prenda un taxi privato che un van condiviso, mentre se cammino cento metri e vado sulla strada posso a provare a fermare qualche mezzo pubblico, sempre che, sono appena passate le quattro, ce ne sia ancora uno.

Cosi provo l’autostop e stavolta mi dice bene, perché subito dopo il rifiuto del pullman di liceali finlandesi mi carica un gioviale cinese diretto a Sandakan. Ranau poi è uno di quei paesi che nonostante sia al centro di un’area iper turistica, viene visitato rarissimamente. Te ne accorgi dall’espressione curiosa e spaventata con cui ti osservano i bambini piccoli, dai ragazzi che cercano di attaccare bottone pur non parlando inglese, da quello che ti invita a giocare a snooker o almeno a sederti al suo fianco a guardare la partita. Te ne accorgi anche perché le prime tre sistemazioni che vedi sono davvero fatiscenti, e per fortuna che la quarta è decente e non ho bisogno di pregare prima di andare a vedere la quinta e ultima.

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